sabato 18 dicembre 2010


Ho bisogno della libertà. La libertà di portare in giro con libertà le mie idee, la mia essenza più profonda, l’ideale di vita che ognuno di noi porta con sé e che scorgiamo, costruendolo nella nostra testa, nella vita di tutti i giorni, quando attraversiamo la strada, o in piedi sul tram, mentre cerchiamo un appiglio per non cadere.
Libertà è quando siamo convinti che stiamo facendo la cosa giusta, senza che ci importi davvero se sarà una scelta priva di errori, è quella sorta di mondo interiore che riusciamo a proiettare all’esterno non perché lo vediamo concretamente, sbucato fuori da qualche angolo nascosto del nostro quotidiano, ma perché ci accompagna, come una visione che possiamo cogliere solo noi, una sequenza continua di immagini, persone e cose che ci scorre vicino, ci colora la vita e ci offre l’idea esatta di chi siamo e di cosa vogliamo, di cosa abbiamo bisogno per essere felici. Voglio questo per me, voglio sapere che non seguirò il destino di chi mi ha indicato pedagogicamente, pedissequamente ripetto ai dettami cattomoralisti di paese la via, ma ciò che ritengo più giusto, al limite delle mie capacità, al limite delle possibilità esterne, con rispetto e fiducia, e tutta la responsabilità che mi è data per rispondere sempre, nel bene e nel male, delle mie personali azioni.

sabato 26 giugno 2010

CHELA DI GRANCHIO, O IL PIACERE DI RITROVARE SE’ STESSI DENTRO SE’ STESSI






Pensavo, quando mi capitavano davanti per caso quelle tipiche nordiche di chissà qual paese del nord, sorte di brutte copie della Brigitte Nielsen, pensavo che siamo davvero un poco tutti diversi, noi esseri umani fatti di ossa e di carne, e di carne così tanto diversamente redistribuita.
In anni e anni e poi ancora altri anni passati nel folle tentativo di neutralizzare la produzione di grasso cattivo, mi ero convinta che il cibo sano e lo sport avessero anche il magico potere di regolare la carne nei punti giusti come il coltello spalma la nutella per bene sulla fetta di pane, come le mani sanno plasmare le terracotte tenere prima che diventino vasi, come la spatola aggiusta la malta e leviga i muri, sulle pareti delle case.
Pensavo che il mangiar sano o insano non fosse responsabile solo della qualità della nostra misera carne, ma determinasse anche il modo attraverso il quale quella poteva spuntare, nelle diverse parti del corpo. E invece.
Invece vedevo quelle giunoniche signore con delle gonne troppo mini, senza un filo di grasso nelle giunture degli arti: le caviglie sottilissime, i ginocchietti microscopici, le coscette come sedanini, il culetto tanto piatto da risultare trasparente, semplicemente non pervenuto.
Le vedevo soprattutto mangiare e bere, e bere e bere e ancora mangiare, abbuffarsi letteralmente di grasso cattivo, di quel mostro malefico, di quel diavolo tentatore chiamato cibo spazzatura, patatine e cotolette, vino rosso e birre medie, intervallate da qualche sigaretta, e toast e uova col bacon.
E certo la pancia c’era eccome, ma non ce la contavo la pancia.. come avrei potuto? C’era per una semplice questione di natura fisica: la pancia era il luogo dove tutto quello spazzume finiva. D’altro canto mica poteva essere smaltito così, come neve sciolta al sole, come materia qualsiasi squagliata, annullata per effetto della soda caustica!
Così, evitando quel doppio sbottino di grasso che nascondeva quasi l’ombelico, appena visibile sotto alle canotte strette di sopra e slargate alla base, scorrevo con gli occhi le gambe infinite di queste sorte di veneri altisonanti con le tette grossissime e in bella mostra, senza che mi riuscisse di scovare un solo millimetro di grasso tra quelle cosce perfettamente levigate, come passate fortunosamente con la spatola anche loro, per volontà di chissà quale ingiusta scelta divina, mi sarebbe piaciuto sapere.
E mi guardavo per paragone, sconsolatissima in quei momenti, le cosce burrose, le gambe nutrite di insalate e cereali integrali, yogurt e carotine, con cui avevo macinato chilometri e chilometri, soltanto attraverso la corsa, senza contare tutti quegli altri sport del mondo che avevo praticato, più o meno fin già dalla nascita. Mi guardavo il polpaccio da calciatore, le ginocchia antigonne avvolte da un rotolo intero di scotch da pacchi, il sedere ingombrante, sempre pronto a rovinare la linea di qualsiasi vestito, sempre pronto a impedire una calzata bella scorrevole dei jeans.
Mi guardavo, e pensavo che forse a volte opporre una strenua e cieca resistenza alla nostra vera natura, a quello che fatalmente potremmo definire semplice determinismo biologico, non solo non ha senso, ma è anche un poco folle, inutile, stupido.
Forse inventariare in modo così certosino tutto ciò che ci troviamo in dote (se è poi vero che a caval donato non si guarda in bocca), fino a respingere parte di ciò che siamo, parte della nostra natura, significa anche usare in eccesso la ragione, scegliere di default dei canoni, anche estetici, che la testa sa bene essere considerati vincenti da un manipolo di personaggi che stanno comunque là fuori, fuori di noi, senza ascoltare davvero che cosa ci dice il nostro istinto, la nostra parte più vera, che sola conosce cosa ci faccia davvero bene.
Mi era venuta di colpo una gran voglia di vivere, una voglia sconfinata di lasciarmi andare, di sciogliere la tensione presente in modo oramai stabile dentro ai miei visceri, sempre pronta a tirarmi i nervi del corpo, i muscoli delle cosce, le corde del collo, fino quasi a farli spezzare.
Mi era venuta voglia di accogliere la vita senza fare eccessivi controlli all’ingresso, come facevano con il cibo quelle bionde giunoniche venute dal nord.
Di farmi travolgere da onde benevole, acqua di mare che arriva improvvisa a farti cadere vicino alla riva, mentre muori dalle risate, come un bambino con i braccioli, che dopo il primo moto di spavento capisce comunque di non essere in pericolo, di essere dentro un bel gioco senza troppe regole complicate e di volerlo giocare, senza farsi troppe domande.
Avevo voglia di questo, voglia di sentirmi al sicuro senza che lo decidesse per forza la mia testa che cosa mi facesse sentire al sicuro, voglia di mettere una distanza definitiva tra quella che solo io sapevo essere la mia felicità e tutta quella parte di vita che mi ostinavo a lasciare nelle mani degli altri, nella stupida convinzione che vi potesse essere qualcuno, là fuori, capace di scegliere e determinare quale potesse essere il mio bene al posto mio.

lunedì 3 maggio 2010

LO FACCIO PER TE


Non ho niente da dire, niente più di quanto io già non abbia abbondantemente detto, eppure vedi, sono qua a parlare ancora e lo faccio per te.
Lo faccio per te, per un paio di occhi che mi si dedicano - ed è un onore -, per quel muro che mi sento costruito intorno, fortezza issata a difesa dei miei sogni, e dei miei giorni.
Lo faccio per appoggiare a terra l’egoismo, alzare le mani ed arrendermi di fronte alla tua perseveranza, all’importanza che dai a quella parte di me che da tempo ormai avevo seppellito. Impotente verso il tuo insistere, cedevole di fronte al richiamo delle tue irresistibili ragioni, lo faccio perché mi lusinghi, perché solletichi passioni appartenute ad un tempo che non c’è più, che credevo di avere dimenticato, convinta com’ero che oramai non potesse più ritornare.
Nessuno ti ha mai spiegato che serpente tentatore sia la lusinga? Attento: un giorno non troppo lontano potrei convincermi che sia tutto vero quello che dici.
Lo faccio per la mia autostima, perché non ha importanza forse tanto l’essere giunti quanto il volersi bene, credere veramente in sé stessi nonostante tutto, nonostante la vita sembri portarci lontano da dove avremmo disperatamente voluto essere; è il percorso che, alla faccia di tutto ciò che ci rema contro, decidiamo comunque di intraprendere che fa la differenza e ci fa gioire, più che la meta; o comunque è il modo intenso con cui viviamo la nostra passione l’unica via che ci permette di raggiungerla davvero, quella stessa meta.
Lo faccio perché finalmente non è più vero che “parlo ma intanto sono qua”, perché sono uscita da quel buco che mi ero scavata, e anche se non mi viene ancora tanto da ridere la cosa più bella è che sullo sfondo, proprio dietro alle mie spalle, sento il muro portante della tua presenza, sento il tuo sorriso ed è bellissimo sapere che a sorridere adesso ogni tanto ci puoi pensare tu anche per me, che anche se non ho voglia ogni tanto la voglia ce la puoi avere per me; bellissimo sapere di piangere e avere qualcuno disposto ad asciugarti le lacrime.
Lo faccio perché non ringraziamo mai abbastanza chi ci fa del bene, e perché non bisognerebbe tradirsi mai, tradire quello che siamo, tradire la fiducia di chi ciecamente in noi la ripone, mai dimenticarsi di chi ci sostiene.
In fondo, mi dico, se con tanto accanimento ciò accade un motivo ci sarà.
Ecco perché lo faccio.
Lo faccio per questo. E lo faccio per te.

domenica 4 aprile 2010

CRAMPI


Gli spritz erano diventati 5 lungo l’arco della serata. Rispetto all’emicrania del pomeriggio le cose avevano preso una piega decisamente più interessante. Il gruppo - una band strepitosa composta da 10 elementi che suonavano jazz, blues, e la parte migliore della musica anni 50 - lo conoscevamo bene. Ad un certo punto il cantante venne a chiamarci sul palco. Sara trovò campo libero, e gli corse dietro. Io invece trovai un ostacolo. Inciampai su uno scalino posizionato nel bel mezzo del nulla eterno, e caddi malamente a terra prima ancora di muovere un passo. Capii subito che era successo qualcosa. Mi si gonfiò come una grossa mela la caviglia destra. Mi dettero del ghiaccio. Non sapevo se ero rotta; ad un certo punto comunque mi ruppi le palle e rimisi lo stivale, riprendendo a ballare. Sara l’avevano messa a cantare. Proprio nel mio momento di gloria -mi disse acida- ti devono capitare queste cose. Fanculo, le risposi garbata. Avevamo un sacco di cose da fare assieme, nei week end di là da venire. Quella caduta poteva compromettere tutto.
Tornai a casa con Marco, e per fortuna ridevo alcolica. Marco mi aveva fatto passare l’emicrania, appena qualche ora prima. Era tornato a casa a prendermi il brufene. Marco mi riportava a casa spiaciutissimo per quello che era successo. Mica era colpa sua, pensavo. Ma non glielo dicevo. Ridevo. E lui era felice che lo facessi. Non so perché, ma lo divertivo parecchio. Mi tolsi gli stivali, e gli dicevo che non puzzavano: sapevano solamente di cuoio. E certo che è così, mi rispondeva lui, rassicurante al contrario mio, e poi non te li puoi mica tenere. Con quello che ti è capitato al piede. Grazie, gli dicevo, grazie. E ridevo come una pazza. Marco mi guardava, era felice di vedermi ridere. Non so perché, ma più io ridevo più mi pareva di vederlo contento. Non era solo una sensazione, cominciavo ad esserne quasi sicura. Un milione di tanti piccoli causa effetto.
Non ero comunque sicura di piacergli. Ero sbronza, confusa. Non mi ci interessava neanche saperlo. Succedeva tutto in maniera così naturale con lui…. Successe anche che ci abbracciammo, e mi baciò con lo stivale in mano. Mi diceva che sapeva di cuoio. E mi baciava. Mi piaceva, non so se per l’alcol o per che cosa. Mi piaceva. Finimmo con il fare l’amore là, davanti a casa mia, con mia sorella che poteva rientrare da un momento all’altro. Non durò molto, per la verità, ma ci venne spontaneo. E quando venni io, urlai per il crampo feroce che lo spasmo aveva fatto scendere alla caviglia contratta e distorta. E forse rotta. Fu un dolore atroce. Non me lo dimenticai mai più. Marco mi guardava, era dispiaciutissimo. Ma aveva anche stampato sul volto il relax tipico della post scopata, con tutta la muscolatura decontratta e stropicciata. Lo guardai, neanche stavolta era colpa sua. Tuttavia scesi dalla macchina baciandolo, con gli stivali in mano, senza di nuovo dire una parola.

Nichilismo


Non è una poesia:
non ci sono versi là sotto,
né rima che scorre.
Non c'è armonia:
è il trionfo del metallo pesante,
della materia d'acciaio
e della ragione.
E' il trionfo del nichilismo:
è l'io che s'arresta, è l’ego che arretra
di fronte alla logica spietata
dei cavi di rame.
Non è una poesia:
le manca il corpo,
le forme sinuose che incantano,
le manca la vita
che scivola addosso,
come vesti leggere e corte
di seta e di raso

lunedì 29 marzo 2010

CUORE E PC


Non percepisco il battito pulsare,

-mi sforzo- ma nessun segno di vita

in fondo al petto, soltanto

un'agonia di suoni monocordi e vacui,

impercettibili e striduli -e ironici-.

Ma non mi appartengono, e li sente soltanto

l'orecchio, e li fischia e li soffia

tremando un poco la macchina

sotto di me.

Solo un muro panna, un anonimo contenitore

fatto di gommapane.

Solo questo, e nessun suono dentro di me.

domenica 28 marzo 2010

LA VITA ALTRUI

Non è che mi interessi fare il punto
Di situazioni affatto necessarie,
ci penso certo e credo – come tutti -
che si profundan futili energie
in ansiotiche declinazioni di vita,
e caricaturali allegorie. C’è vento fuori
e piove a grosse strisce,
e di traverso l’acqua bagna i coppi,
e il prato e i campi e quella pioggia mi colpisce,
rimbalza dentro dal mezzo tetto,
strigliandomi per bene cima a fondo
l’animo, qua in petto.
Nella realtà mi piace rispecchiarmi,
per poter poi imbastire riflessioni,
ma non voglio certo più ferire,
né me né chi circonda il mio bastone.
E’ che non riesco a non pensare al bello,
della poesia dell’arte della storia,
non riesco a fare finta di ignorare,
che questa sera verde caco
positivamente mi addolora,
addizionando di beltà ineguale
la vita che davanti mi rimane,
quel ricco dono che mi fa speciale
- pur se agli occhi di me sola soltanto!.. -,
e che mi porta a vivere e guardare
la vita altrui come se fosse mia, e come se, d’incanto,
io la potessi ad altri raccontare.

sabato 27 marzo 2010

NOVEMBRE

Come marinai annoiati,
lasciamo che le onde burrascose
ci trascinino. Arranchiamo un po’,
ci assopiamo, impigriti,
immersi nella penombra
impermeabile alla luce.
Forti correnti trascinano le acque scure
verso il bagnasciuga. E noi, che come automi
ci lasciamo trasportare, bruscamente cullati
da un’esistenza più lugubre e opaca
del mare novembrino.

giovedì 25 marzo 2010

INTRO


Era una dimensione nuova per me. Non ci avevo mai fatto caso. Non ero felice, quello no, ma almeno ero un poco contenta. Contenta come può esserlo chi acquisisce maggiore consapevolezza nei confronti di sé stesso. Contenta come chi sente di avere una speranza ancora, nonostante i suoi trent’anni suonati.
Avevo potuto portare a casa tanto, da una serata come quella. Sopra ogni altra cosa, la convinzione che i sogni rappresentano una realtà concretizzabile, e non, come avevo pensato fino ad allora, una cosa orribilissima e vergognosa da rifuggire e da tenere nascosta. Per quanto rappresentino da sempre una sorta di marchio di fabbrica, mi sono sempre tanto vergognata dei miei comportamenti troppo estroversi, spesso schizoidi, a volte, purtroppo, incontrollati. Eppure adesso capivo che sarebbe successo sempre, a meno di non imparare a comunicare ciò che mi interessava veramente. E a farlo nella forma che mi era più congeniale. Soltanto allora mi sarei riappacificata con me stessa. E di certo ne avrebbero beneficiato i rapporti interpersonali. Sarebbero diminuite le figuracce.
Mentre pensavo a questo, una strana sensazione di pace mi calava addosso. Sentivo che la realtà mi stava guardando finalmente dalla parte giusta, proprio perché, opposta a quella, la mia prospettiva delle cose ineriva, per l’appunto, alle cose, invece che avere pretese coercitive sopra di esse.
Il desiderio incontrollabile di controllare tutto stava svanendo un poco alla volta.
Inoltre, guardavo a me stessa da me stessa, e non attraverso il giudizio degli altri. E il mio sguardo era, per l’appunto, diretto verso di loro: non stava a fiatare con gli occhi sopra le loro teste.
O quantomeno tentavo per la prima volta (e per la prima volta con sorprendente, caparbia determinazione) di percorrere una strada come quella. Non mi importava più di un sacco di storie.
A ben pensarci, solevo ripetere spesso a mia madre che ogni essere umano può permettersi di spendere gli stessi identici gettoni, per determinare le sue condizioni emotive. Sembrerà banale, e stupido, e ovviamente molto scontato, ma esulando dal suo contesto di riferimento un infelice è tale sia che le sue tasche possiedano molti quattrini sia che non possieda nemmeno le tasche per contenerli, quei quattrini. E’ tutta una questione di equilibrio interiore. Io avevo sempre peccato di furia apparente. Ma c’erano persone che dietro una calma illusoria ed ingannevole nascondevano cicloni bufere e tempeste. E’ tutta una questione di equilibrio interiore. E quello se non ci si tira su le maniche e si inizia a conquistarselo..molto difficilmente lo si troverà per caso, così, inciampando sui pacchi regalo di madre natura.
Di questa come di altre riflessioni cariche di buonsenso era piena la mia testa, sempre in funzione, anche grazie ad un lavorìo continuo, cerebrotico e compulsivo. Solo che spesso tradurre in pratica suddette intuizioni significa essere inseriti in un percorso di vita solido, che si è deciso di far proprio, che abbiamo scelto in mezzo alla giungla degli interrogativi, degli errori, degli schemi familiari, dei se e dei ma. E il mio percorso per la prima volta iniziava davvero a somigliarmi. Solido era tutto fuorché solido, per la verità, ma cominciava sicuramente ad essere mio.
La nostra vita sono le persone che fortunatamente ci circondano. Ed io sapevo bene di non potermi attribuire tutto il merito di quell’inaspettata, improvvisa, bellissima rinascita così carica se Dio vuole degli errori del passato, e tuttavia così piena di promesse per il futuro.

lunedì 22 marzo 2010

QUANDO MI SVEGLIO AL MATTINO

Al Mattino, Quando Mi Sveglio, La Luce Nuova
Si Fa Avanti, e Filtra Tra Le Fessure Di Ogni Mia Notte Stanca.
E Si Dirigono Discreti Verso Il Materasso
Fili Invisibili Di Melodie Di Usignoli.
E Non Appena Si Fa Largo Il Pensiero
Sono Felice Perché Ho Dormito,
Sono Preoccupata Perché Non Ho Una Meta Chiara,
Chiara Almeno Quanto Questa Mattina,
Perché Ho Dei Sogni A Metà, E Quei Sogni
Di Notte Non Li Posso Sognare,
Ma Quei Sogni Di Notte Non Mi Fanno Dormire.
E Poi Penso Alle Cose Che Ho Sullo Sfondo,
A Questa Nuova Dimensione Di Vita Che Ho
Come D’ovatta, Fatta Di Nebbia Da Calura Estiva,
E Di Cose Poco Concrete.
E Penso Che Non Ho Mai Meritato
L’amore Di Un Uomo, Perché Semplicemente
Non Me Ne Sono Curata Mai,
E Mi Chiedo Perché Tu Invece Ci Sei,
Se In Fondo, Ogni Giorno Che Passa,
Quando Apro Il Sipario Trovo La Fata Del Mattino
Che Apre Le Sue Danze Muovendo A Fatica Le Gambe Sinuose,
E Producendosi A Malapena In Piccoli Passetti Insicuri.
Perché Ci Sei, Se Tutto Quello Che Ho E Che Offro
Veste Da Sempre I Panni Dell’incertezza
Di Per Sua Stessa, Intrinseca Natura.

domenica 21 marzo 2010

CORRERE


Lo sai cos’è, è che ci sono giorni in cui davvero correrei, correrei forte più che posso, forte tanto quanto le mie gambe me lo permettono, a ginocchia alte e pugni chiusi con le dita contratte schiacciate pressate dentro le mani, tanto da sentire le unghie quasi bucarmi la pelle. Correrei con gli occhi chiusi senza guardare affatto la strada, con le palpebre serrate in un’ostinata negazione del mondo, in una voluta, forzata cecità, evitando, cercando di evitare di sentire le lacrime copiose cadere giù.
Correrei per togliermi di dosso questa fastidiosa sofferenza che mi punge, che mi toglie tranquillità, e mi impedisce di vivere la quotidianità in modo concreto, portando a termine costruttivamente quanto voglio e devo fare, nel lavoro e nel privato.
Mi scrollerei via questo logorio usurante e continuo, questa voglia che ho di amare qualcuno che mi ricambia suo malgrado ma che mio malgrado mi respinge, questa voglia che ho di buttarmi alle spalle tutto questo ma non si può, non si riesce, perché l’amore quello vero è attrazione, è chimica, è una corda bella grossa e resistente, che ti si avvolge addosso come un cappio e se ne frega di quello che vuoi tu, trascinandoti verso l’altro senza veramente stare ad ascoltare le tue perplessità, le tue obiezioni, la preoccupazione per il dopo.
Lo farei per dimenticare quanto frustrante sia sapere di piacere a qualcuno, e tuttavia al contempo sapere che quella persona ti respinge, piena di dubbi e di perplessità circa le numerose differenze che vi separano.
Correrei davvero, nel tentativo nobile di porre fine definitivamente a questo loop autodistruttivo, in realtà sapendo di farlo nella speranza di voltarmi e vedere che finalmente anche l’altro ha capito, ha capito che si potrebbe anche scegliere persone uguali a noi ma a quel punto la vita rischia di essere una noia mortale, perché chi ti fa sobbalzare dalla sedia, chi ti sorprende pia-o-spiacevolmente, chi ti fa vedere il mondo attraverso occhi che decisamente non sono i tuoi non è certo una persona facile da gestire, ma sicuramente tutto quello che ti potrà dare – tutto- è NUOVO PER TE. E bisogna avere il coraggio di stare con qualcuno di diverso, perché il nuovo ricambia l’aria nella stanza, e fa vibrare una corrente emotiva di fili invisibili che scorre veloce avanti e indietro incessantemente, come le luci sugli alberi e le case, nei giorni di Natale.
Correrei per sperare di essere rincorsa, una volta nella vita che non ero scappata avrei voluto vedere dietro di me un’ombra allungarsi verso le gambe di un uomo, che correndo anche lui come un forsennato a mezzo skeep, e allungando disperatamente un braccio nel tentativo di braccarmi, riuscisse a fermarmi alla fine; una volta che nella vita non ero scappata mi sarebbe piaciuto che qualcuno mi trattenesse; fermi tutti e due in mezzo alla strada, le mani alle ginocchia e il fiato corto, e le casse toraciche strette in una morsa convulsa di su e giù; una volta nella vita non scappare e sapere per questo di non essere da soli.
E sentirsi abbracciare, e stringere dolcemente, e con amore essere riportati indietro.

GLI OCCHI


Trovavo che ci fossero persone che consciamente o meno l’energia ce la mettevano tutta quanta negli occhi.
C’erano al mondo occhi di tanti tipi: occhi buoni, grandi, piccoli…E ancora occhi ridenti e bonari e occhi tagliati sulla cattiveria..
Ma capitolo totalmente a parte meritavano coloro la cui personalità riusciva ad essere irradiata, come emanata fascinosamente proprio dallo sguardo, dalle sue traiettorie taglienti e piene di vita; dalla sua luce e dalla sua ombra, e dal suo colore.
Se mi capitava di trovarne rimanevo ad osservarli incantata e rapita, cercando a volte di incrociare quelle traiettorie senza tuttavia riuscire a sostenerne se non per brevi attimi la carica emotiva e il dinamismo espressivo una volta che le avessi intersecate.
Trovavo che più la gente era inconsapevole di tale forza, più riusciva a metterla in atto sfruttandone appieno la potenzialità.
Impazzivo in particolare per le sfumature del celeste, per quegli occhi che a tratti erano grigi e altre volte invece ti si presentavano davanti come il cielo terso estivo delle due del pomeriggio al mare; occhi che soli sapevano farsi carico di una tristezza infinita passandotela tutta addosso, e soli sapevano essere capaci di una timidezza che li sopraffaceva totalmente, a volte.
Trovavo che tale forza fosse assolutamente capace di interagire con il prossimo in una girandola di dialoghi prodotti senza proferire parola, un’energia capace di attirarti a sé, e di respingerti, o di schivarti suo stesso malgrado. Ci stava la vita sotto quelle sfumature; una vita magari non raccontata, e tuttavia spesso facilmente intuibile, e totalmente diversa da ciò che invece attraverso la parola emergeva; l’intera vita omessa affiorava, a tratti e solo agli animi sensibili ed attenti, attraverso la parete vitrea con bagliori languidi di risolini insensati o inspiegabili malumori. In quei momenti dovevo frenare il mio impeto, bloccarlo, fermare il fiume di discorsi che ero solita proferire...
Non c’era niente che avesse più senso aggiungere, niente avrebbe dato ulteriore significato a ciò che mi era già stato così bene comunicato. Il linguaggio, è proprio così, non è fatto davvero soltanto di parole. E mai come in quei momenti mi riusciva facile vedere la forza disarmante di tale verità.

LA CARRIOLA


Mi sono portata appresso una bella carriola e continuo a scavare il terreno pesante e incolto che occupa la superficie del mio giardino; scavo e scavo come una dannata ma non mi riesce di trovare nulla.
E mentre continuo a scendere molto più sotto rispetto al livello del suolo ho come l’impressione di compiere una mossa inutile, assurda, controproducente: più vado di sotto e più non trovo nulla, e intanto mi sembra quasi di scavarmi la fossa da sola.
Cercavo di trovare humus fertile per poter finalmente seminare qualche cosa anche io, ma la terra è sempre più arida, secca; la terra si sbriciola tra le mie mani priva di consistenza, priva di anima, priva di tempra, e priva anche di qualsiasi sentimento. Scava e scava, scava e spera, non importa non ti fermare continua, giorno dopo giorno, giorno dopo giorno cerca la zona migliore, ma il sentimento che prevale è lo sconforto, e mi assale una invincibile voglia di seppellirmi viva sotto tutta quanta quella terra inutile accumulatasi là sopra.
Forse che vivere sia un continuo cercare di trovare qualcosa di buono e di vivo dietro l’angolo; qualcosa che ci sfugge dalle mani ogni volta che tentiamo di afferrarlo, un gioco perverso al massacro nel tentativo illusorio di seguire un illusorio fine costruttivo per noi, per la nostra vita, per l’idea di vita in sé.
Forse che vivere sia proprio questo, e non importa se non si riesce a stringere tra le mani un bel niente, ad un bel niente arrivare se non, guarda un po’, alla fine di tutto, a scavarci la fossa, mi viene da pensare, mentre mi appresto rassegnata a risalire dall’ennesima buca, mentre mi asciugo le gocce di sudore che mi cadono sulla fronte, appoggiandomi sulla pala per riposarmi un poco, sconsolata dal triste quadro che mi si para di fronte, un insieme indistinto di terra e gramigna come unico premio per la mia buona volontà.
Forse che vivere sia proprio questo, mi dico recependo mio malgrado quanto rispecchi lo sconforto del mio spirito quello spettacolo desolante ed arido, ma intanto registro anche che nonostante tutto il mio vano cercare, altra strada se non quella di continuare a cercare per costruire qualcosa di buono io non conosco, e dunque mi appresto, con spirito oramai non più battagliero ma neanche in fondo completamente rassegnato, a ripiantare altrove il badile.

LA LINGUA


Ho sempre pensato che tra tutte le forme di comunicazione la parola abbia ancora tanto, tutto da dire. Non credo possa o potrà mai essere scalzata, per status, per tradizione e fama; e perché senza di lei nessuna delle altre forme di comunicazione potrebbe mai dirsi completa.
Il verbo, d’altro canto, nella sua accezione originaria ed assolutamente evocativa, è la radice che ha dato origine a tutto.. “In principio era il verbo, e il verbo era presso Dio, e il verbo era Dio..” recita un testo – credo – abbastanza conosciuto ed importante.
Tuttavia, senza addentrarmi in discorsi pericolosi, voglio limitarmi a sottolineare l’importanza della comunicazione verbale, quanto sia affascinante notare le evoluzioni che il suono ragionato (così mi piace definire la parola) ha subito nel corso della sua millenaria storia, e le declinazioni cui si è prestato, per dare voce a tante diverse popolazioni..
L’italiano, in particolare, è una lingua dolce e piccante insieme, che con le sue mille sfumature può essere tranquillamente intesa come specchio della sua gente, di una storia che nel tempo è riuscita a fondere innumerevoli varietà geografico-culturali.. Per questo mi affascina, ogni volta mettendomi di fronte a delle peculiarità, a dei dettagli mai notati prima.
Mi vengono i brividi se penso a come parlavano i latini e a come nelle terre da loro abitate si parlino oggi lingue così simili e tuttavia così diverse; a volte avrei voglia di acchiappare i suoni che la gente produce, per cercare di fissarli in eterno, per paura di perderli, rassegnata comunque al fatto che succederà, rassegnata all’idea di ritrovare un domani neanche troppo lontano le produzioni scritte ed orali dei principali protagonisti della nostra epoca impresse e archiviate in chissà quale nuovo supporto di chissà quale nuovo materiale o formato.. e magari lecitamente prive di quelle regole sintattiche e/o grammaticali considerate fino ad oggi alcuni dei perni fondamentali sui quali far ruotare imprescindibilmente i nostri discorsi.
D’altra parte, provenendo da studi classici, io stessa sono venuta a conoscenza di ciò che diceva Cicerone; di ciò che dicevano Seneca e Cesare e prima di loro Platone, Senofonte e gli altri al di là dello Ionio, nelle elleniche terre.. E insomma ricordo gli anni in cui mi sono messa lì a fare le frecce per spostare le parole e far crollare pezzo dopo pezzo i costrutti infiniti ed enigmatici di quelle eterne perifrastiche, mentre aprivo vocabolari di lingue evidentemente morte nel tentativo disperato di ricostruire nuovi giri di parole, di ritrovare un senso che fosse logico per la lingua italiana moderna, per noi che viviamo adesso, spostati migliaia di anni più avanti sull’asse temporale.
Forse è stato proprio per questo, fatto sta che nel tempo ho maturato un fastidio sempre maggiore nei confronti del grande caos che interessa la nostra epoca, dove paradossalmente il sapere non è precluso praticamente a nessuno, ma dove, probabilmente per la medesima ragione, tutti si permettono di usare virgole, lettere, termini ed accezioni senza un principio chiaro…
C’è letteralmente poco senso in tutto questo, e quello che mi piacerebbe fare attraverso questo blog è provare a denunciare l’esigenza di una coscienza attiva, presente, che ci faccia puntare il dito verso le lettere dell’alfabeto in modo responsabile, facendo emergere all’interlocutore senza alcuna ombra di dubbio l’idea che dietro quel pensiero manifestato e manifesto vi sia stata una scelta ponderata di morfemi, fonemi, significanti e significati; perché, come diceva quel regista in uno dei suoi film più famosi, le parole sono importanti, ed è importante sceglierle bene.
Attenzione però: la facoltà di scelta non è detto si connoti sempre di sfumature positive; intendo dire che se riesco a manipolare con consapevolezza e un poca di maestria la faccenda del linguaggio ed i suoi risvolti pratici, ho tutto il diritto di creare dei piccoli mostri, se in questo modo voglio, ad esempio, lanciare ironici messaggi subliminali, o mettere in atto una denuncia verso qualcosa di particolare.. Se il fine è costruttivo, e si decide di portare il proprio contributo o fruire di quello altrui per crescere., allora tutto è benvenuto: giochi linguistici, piroette verbali, neologismi, cacofonie, nuove regole..D’altro canto, sono auspicabili tutte le forme di intervento, dalle riflessioni ai racconti, agli sfoghi… tutto purché espresso attraverso la lingua più antica: quella dei segni. L’insegnamento più importante che ho ricevuto è che non è il nostro sapere ad essere fondamentale per noi, ma quello degli altri; perché il nostro lo conosciamo già, mentre quello altrui, se non ci viene trasmesso, ci manca completamente. Animata da questo spirito, iniziando io per prima a farmi conoscere attraverso i miei scritti, mi piacerebbe dare vita ad una nuova avventura.

Giorgia