sabato 26 giugno 2010

CHELA DI GRANCHIO, O IL PIACERE DI RITROVARE SE’ STESSI DENTRO SE’ STESSI






Pensavo, quando mi capitavano davanti per caso quelle tipiche nordiche di chissà qual paese del nord, sorte di brutte copie della Brigitte Nielsen, pensavo che siamo davvero un poco tutti diversi, noi esseri umani fatti di ossa e di carne, e di carne così tanto diversamente redistribuita.
In anni e anni e poi ancora altri anni passati nel folle tentativo di neutralizzare la produzione di grasso cattivo, mi ero convinta che il cibo sano e lo sport avessero anche il magico potere di regolare la carne nei punti giusti come il coltello spalma la nutella per bene sulla fetta di pane, come le mani sanno plasmare le terracotte tenere prima che diventino vasi, come la spatola aggiusta la malta e leviga i muri, sulle pareti delle case.
Pensavo che il mangiar sano o insano non fosse responsabile solo della qualità della nostra misera carne, ma determinasse anche il modo attraverso il quale quella poteva spuntare, nelle diverse parti del corpo. E invece.
Invece vedevo quelle giunoniche signore con delle gonne troppo mini, senza un filo di grasso nelle giunture degli arti: le caviglie sottilissime, i ginocchietti microscopici, le coscette come sedanini, il culetto tanto piatto da risultare trasparente, semplicemente non pervenuto.
Le vedevo soprattutto mangiare e bere, e bere e bere e ancora mangiare, abbuffarsi letteralmente di grasso cattivo, di quel mostro malefico, di quel diavolo tentatore chiamato cibo spazzatura, patatine e cotolette, vino rosso e birre medie, intervallate da qualche sigaretta, e toast e uova col bacon.
E certo la pancia c’era eccome, ma non ce la contavo la pancia.. come avrei potuto? C’era per una semplice questione di natura fisica: la pancia era il luogo dove tutto quello spazzume finiva. D’altro canto mica poteva essere smaltito così, come neve sciolta al sole, come materia qualsiasi squagliata, annullata per effetto della soda caustica!
Così, evitando quel doppio sbottino di grasso che nascondeva quasi l’ombelico, appena visibile sotto alle canotte strette di sopra e slargate alla base, scorrevo con gli occhi le gambe infinite di queste sorte di veneri altisonanti con le tette grossissime e in bella mostra, senza che mi riuscisse di scovare un solo millimetro di grasso tra quelle cosce perfettamente levigate, come passate fortunosamente con la spatola anche loro, per volontà di chissà quale ingiusta scelta divina, mi sarebbe piaciuto sapere.
E mi guardavo per paragone, sconsolatissima in quei momenti, le cosce burrose, le gambe nutrite di insalate e cereali integrali, yogurt e carotine, con cui avevo macinato chilometri e chilometri, soltanto attraverso la corsa, senza contare tutti quegli altri sport del mondo che avevo praticato, più o meno fin già dalla nascita. Mi guardavo il polpaccio da calciatore, le ginocchia antigonne avvolte da un rotolo intero di scotch da pacchi, il sedere ingombrante, sempre pronto a rovinare la linea di qualsiasi vestito, sempre pronto a impedire una calzata bella scorrevole dei jeans.
Mi guardavo, e pensavo che forse a volte opporre una strenua e cieca resistenza alla nostra vera natura, a quello che fatalmente potremmo definire semplice determinismo biologico, non solo non ha senso, ma è anche un poco folle, inutile, stupido.
Forse inventariare in modo così certosino tutto ciò che ci troviamo in dote (se è poi vero che a caval donato non si guarda in bocca), fino a respingere parte di ciò che siamo, parte della nostra natura, significa anche usare in eccesso la ragione, scegliere di default dei canoni, anche estetici, che la testa sa bene essere considerati vincenti da un manipolo di personaggi che stanno comunque là fuori, fuori di noi, senza ascoltare davvero che cosa ci dice il nostro istinto, la nostra parte più vera, che sola conosce cosa ci faccia davvero bene.
Mi era venuta di colpo una gran voglia di vivere, una voglia sconfinata di lasciarmi andare, di sciogliere la tensione presente in modo oramai stabile dentro ai miei visceri, sempre pronta a tirarmi i nervi del corpo, i muscoli delle cosce, le corde del collo, fino quasi a farli spezzare.
Mi era venuta voglia di accogliere la vita senza fare eccessivi controlli all’ingresso, come facevano con il cibo quelle bionde giunoniche venute dal nord.
Di farmi travolgere da onde benevole, acqua di mare che arriva improvvisa a farti cadere vicino alla riva, mentre muori dalle risate, come un bambino con i braccioli, che dopo il primo moto di spavento capisce comunque di non essere in pericolo, di essere dentro un bel gioco senza troppe regole complicate e di volerlo giocare, senza farsi troppe domande.
Avevo voglia di questo, voglia di sentirmi al sicuro senza che lo decidesse per forza la mia testa che cosa mi facesse sentire al sicuro, voglia di mettere una distanza definitiva tra quella che solo io sapevo essere la mia felicità e tutta quella parte di vita che mi ostinavo a lasciare nelle mani degli altri, nella stupida convinzione che vi potesse essere qualcuno, là fuori, capace di scegliere e determinare quale potesse essere il mio bene al posto mio.