domenica 23 gennaio 2011

esercizi di stile


La finestra lasciava passare una luce abbastanza carica, una luce insolita per quella stagione, che l’inverno regalava più che generosamente e che metteva di buon umore.
Era un sabato mattina, tanto luminoso dunque quanto privo totalmente di aspettative, una giornata sgombra da pensieri e forse per questo piena di inedia, magari non di noia ma di calma statica, di quotidiani on line letti premendo lentamente il pulsante del mouse, con le notizie, leggere o pesanti che fossero, che senza rendermene conto commentavo comunque attraverso un’espressione semi-paralizzata e coronata da un sorrisetto idiota che non accennava a lasciarmi la faccia, e che rispecchiava probabilmente quel mio stato d'animo neutrale.
Elencavo mentalmente tutte le singole azioni che mi sarebbero servite per arrivare a sera; non ce n’erano molte ma sarebbero potute bastare, del resto quando ce n’è bisogno ne viene sempre in aiuto qualcuna di ripetibile, come commentare le pagine dei vari social network, riaprendole qualche minuto dopo con la speranza che qualcuno commenti a sua volta. Frammenti di esistenza fatti rimpallare nella rete per sentirsi un poco più vivi.
Mi era appena passata l’influenza di stagione. Tre giorni di convalescenza e di stop forzato dal lavoro erano stati sufficienti per leggere libri, spedire curricula nella vana ricerca di un impiego migliore, e rimanere da sola con me stessa a riflettere. Quel sabato avrei potuto continuare queste attività, ma sentivo di averne abbastanza. Avevo voglia di compagnia, desiderio di vedere gente che uscisse quantomeno dalla cerchia dei miei familiari. Uscire fuori e respirare aria buona.
Ma frequentare i centri commerciali di sabato non è mai una grande idea, e dunque mi pentii subito di quella scelta incauta, prima ancora di metterci dentro un piede, già prima, nel disperato tentativo di trovare parcheggio. Iniziai a maledire nell’ordine: i miei amici tutti impegnati; il mio compagno che aveva dovuto partecipare ad un battesimo in un’altra città, e il virus che colpendomi qualche giorno prima mi aveva permesso di portarmi in pari con tutte le attività extralavorative, tralasciate negli ultimi mesi proprio a causa del lavoro -se è vero come è vero che non ero capace di stare tranquilla neanche da malata - .
Guadagnato a fatica l’ingresso, la solita processione lenta e triste iniziò a sfilarmi di fronte, e dovetti combattere con il desiderio di girare sui tacchi e andarmene seduta stante.
Mi trattennero la noia, le (troppe poche) cose che mi rimanevano da fare entro sera, e una impellente necessità di portare a termine un paio di acquisti.
Diedi una veloce sbirciata alla merce in saldo, comprai quel che dovevo e me ne uscii. Mi accorsi di averci impiegato mica poco tempo. Meglio così, pensai, almeno si è avvicinata l’ora di cena. Guardai pentita il trancio di pizza super lievitato che intravedevo nella sporta, affatto contenta di aver ceduto all’ingordigia. Non era ancora successo niente quel giorno, niente di rilevante che mi venisse in mente, nessun pensiero originale, nessuna idea che potesse salvare il mondo, nessuno slancio verso il futuro, niente che mi tirasse per il bavero trascinandomi avanti. Non volevo tornarmene a casa, ma ero costretta dalle circostanze. Avrei voluto avere una vita completamente autonoma, una vita nella quale non rendere conto a nessuno, in cui non dover dare necessariamente spiegazioni per avere comperato dei biscotti al cioccolato light, come mi stava capitando proprio in quel momento.
Mangiai la pizza dopo averla scaldata al microonde. Una delusione. Era davvero troppo alta e in proporzione non c’era sufficiente mozzarella, sembrava una focaccia secca e insipida. Andava a coronare quella giornata piatta, priva di anima, smorta.
Mi accesi una sigaretta che aspirai con le vie respiratorie ancora infeltrite a causa del virus dei giorni passati, apprestandomi a fare uno zapping distratto; almeno la giornata stava volgendo al termine.
Non avevo risolto granché, né preso (finalmente!) decisioni importanti ad esempio circa il mio futuro; e non avevo ancora capito chi ero.
Non avevo neanche del tutto compreso il significato di una giornata come quella, delle altre che in un certo senso potevano esserle simili: niente di niente, nonostante attraversassi un periodo in cui riuscivo a prendere sufficiente distacco dalle cose, ad allontanare tutto e tutti per poter con calma pensare al da farsi ed infilare un ragionamento di senso compiuto, prima di rimettermi chichessia in mezzo ai piedi.
Eppure niente.
Ormai la sera lasciava il posto alla notte, la giornata l’avevo in qualche modo portata a casa più o meno meritatamente; accesi il computer, ed iniziai a scriverci sopra.
Forse, pensai, forse se me la riscrivo così come mi è venuto da viverla allora in qualche modo ce la faccio, a darle il senso che finora non ha avuto.