domenica 27 febbraio 2011

SOLO PER VOI

La solitudine è un fatto astratto che quasi mai io faccio derivare da fattori contingenti, ritenendola più che altro una dimensione dello spirito, una sorta di freddo dell’anima che molto spesso prova chi sfortunatamente sa di non essere parte di un unicum, specie di centro collegato da una rete di fili invisibili a molti altri centri, attraverso cui avviene un profondo e reciproco scambio di informazioni, affetto, vita. Chi è solo lo sa e sa di non poter contare su nessun altro, e che questa frustrante solitudine non cesserebbe neanche di fronte ad un’eventuale presenza fisica di qualcuno, o in caso di concrete dimostrazioni di aiuto da parte di chicchessia nell’UniversoMondo, perché quel suo UniversoMondo è desolatamente vuoto, e lui lì dentro non vi si saprebbe figurare anima viva, secco e arido terreno privo di humus, asciutto, ingeneroso.


Mi sono accorta facendo qualche ricerca che il contrario di solitudine non mi aggrada, secondo me neanche esiste. Compagnia? Che vuol dire compagnia, necessariamente non sentirsi più soli? E ancora: forse che non essere soli significa essere appaiati? Magari a volte è sufficiente, fermo restando che se si è un paio si è comunque in due e il duale non prevede al suo interno la pluralità, la molteplicità.

Il fatto è che la solitudine è una condizione dello spirito, ed in quanto tale è probabilmente indefinibile, sfumata, impalpabile. Ho dovuto riflettere molto su questo concetto, perché credo, da che esisto sull’UniversoMondo, di averla provata pochissime volte (e non vorrei con questa affermazione portarmi sfortuna da sola).

Certo, non ne ho affatto un bel ricordo - è una morsa gelida che ti stritola il cuore provocandoti angoscia – e appunto per questo ringrazio tutti i giorni la mia buona stella per avermi permesso di vivere una vita piena di affetti, belle persone, gente davvero meravigliosa che ha riempito – spesso per fortuna in modo ingombrante - la mia esistenza di calore, valore, grazia.

Forse il contrario più degno di essere definito tale della parola solitudine è amicizia. L’amicizia quella vera non è legata alla presenza, perché è eternamente presente; è come se fosse una canzone che tutti insieme ci si mette a intonare; è un film, anzi, milioni di film o di pièces teatrali di cui ognuno conosce perfettamente a memoria la (propria) parte. L’amicizia è un miliardo di fili invisibili, appunto, che io stessa sento partire da me e congiungersi con altri, mi sento sempre “connessa”, come se la comunicazione non smettesse mai di avere luogo, quantomeno a livello di animo, di spirito, a volte addirittura per telepatia.

Il mio cuore è sempre colmo di gioia e di quella gioia altri sono responsabili, altri che sono sempre lì con me, che io associo alle cose che faccio, a ciò che vedo, e che spesso sono causa dei miei modi di essere, di dire, di atteggiarmi. Ho avuto dalla vita la fortuna di essere circondata da persone meravigliosamente eclettiche ed originali, spesso anche strane, ma mai banali, mai scontate, sempre pronte a sorprendermi. Ho avuto la fortuna di crescerci attraverso, di caderci spesso letteralmente dentro, alle loro vite, deliziose sirene che mi hanno richiamata in un particolare momento del viaggio, insidiose ragnatele che mi hanno ricamato una bella tela d’intorno. E io ci sono volentieri caduta dentro.

Grazie a questa meravigliosa gente durante la giornata canto, per tutta la vita ho cantato, a me mi canta dentro, perché non canto da sola, è un coro polifonico il nostro, e quando parte una voce poi come per incanto vi si uniscono tutte le altre, e ci si ritrova puntualmente a mettere in piedi una delirante melodia, tragicomica, forse un po’ stonata, ma assolutamente originale.

La mia vita è un film e a chiudere un poco gli occhi ci vedo riflesse le immagini di bellissimi musi, scomposti, sconvolti a volte, arruffati spesso, ma sempre sorridenti! E quel sorriso è la luce che accende i miei giorni, colora il mio mondo, è il motore che mi muove la vita.

E’ soltanto dopo che arrivo io, che altro non spero se non di meritarmi almeno un poco tutto questo.

DIGITA NOS A MALO


.. ti ringrazio o digitale terrestre, perché offri una gamma ossessivo compulsiva di emittenti assolutamente utili per l’umana specie, perché hai redento canali dei quali giuro con i miei occhi di aver assistito al funerale, morti e sepolti, sebbene uccisi da progenie che tuttavia ahimé sempre dalla stessa matrice derivava… Invece..
Invece mentre facevo un tranquillo zapping casuale per mandare meglio giù la colazione tardo mattutina a momenti ci restavo secca; sono riusciti a riesumare il bisnonno crepato oramai da immemore tempo di una rete televisiva nazional-locale di cui son stata a libro paga per un buon periodo di vita - non come certe squinzie che girano oggi, sia chiaro :-D -, senza prevedere il fatto che il vecchiardo avrebbe parlato il suo antico linguaggio, o forse facendolo riapparire avendo già calcolato il potenziale illimitato della sua natura antica…
Sia come sia, sono davvero contenta di non dover operare mai più montaggi di pubblicità erte a fittizie panacee di tutti i mali, fantasmagorici bruciagrassi somministrati sottoforma di pillole magiche, cyclette che neanche Bartali (già, ma si fa una pre-riflessione su chi ci salirà sopra?), maghi che ti restringono lo stomaco solo per effetto di uno sguardo magnetico. Occhio malocchio prezzemolo e finocchio. Voglio dire. Era molto più credibile Banfi. Contenta, sì. Anche perché a mettere al confronto “il nuovo” di prima con “il vecchio che avanza” di oggi, devo dire mi è andata davvero di culo.. Vabbene tutto, ma il rosario elettronico di Papa Giovanni Paolo Secondo che si attacca con un magnete al cruscotto dell’auto e recita i versetti mosso da pile ricaricabili attraverso l'accendisigari no, quello mi sarei rifiutata proprio. C’è un limite a tutto, in questa nazione senza più pudore, da qualche parte bisogna pur iniziare a rivendicarne un poco, cheddite?

sabato 19 febbraio 2011

EQUILIBRIO


… non voglio centrarmi completamente. Come farò poi a riconoscermi, se guardando i miei confini fisici, per la prima volta più nessuno strascico di pensiero dovessi scorgere, nessun riflesso spettrale della mia mente malata, a dirigere il suo alone nero verso l’esterno, sbilanciando come d’abitudine il peso eccessivo delle mie ossessioni in un indefinito, lacerante punto che forse sono io, ma non sono completamente io, o magari, semplicemente, è il contrario di me stessa, un’altra me stessa là fuori, sul liminare, un altro essere, insofferente, refrattario, dissenziente, avversario, crudele.

giovedì 3 febbraio 2011

RETORICA


Mi guardava con quegli occhi neri e una preghiera tacita nel volto, gridava e imprecava dentro di sé pur non parlando affatto, e d’altro canto le parole non servivano, mi bastava incrociare per un attimo il suo sguardo per accorgermi di quella richiesta che usciva muta dal suo volto disperato e supplicante..
Non potevo aiutarlo. Avrei voluto, ma non mi era possibile farlo. Mentre mi diceva che era venuto apposta e che aveva macinato molti chilometri per arrivare fin lì, sapevo che difficilmente l’avrei potuto aiutare anche se avessi accolto le sue richieste. Continuavo a ripetergli senza guardarlo che non potevo dargli ascolto in quel momento, e che sarebbe dovuto ritornare. Ma intanto provavo una pena infinita, e mi sentivo un’imbrogliona della peggior specie perché sapevo che avrebbe investito una seconda volta i suoi pochi soldi a vuoto.
E mentre sentivo il cuore stringersi forte nel petto, mi chiedevo che cosa potevo fare.. Che cosa più del poco o niente che già facevo?
I suoi occhi neri mi si sono conficcati addosso, li sento ancora adesso pungermi la carne, come grossi spilli appuntiti mi trapassano il cuore. Non sono sicura di conoscere il vero significato della parola giustizia. Ma quando la miseria più nera bussa ripetutamente alla porta, non puoi fare finta di non vederla. E a quel punto il senso di impotenza che si prova crea una distanza infinita tra te e lei, una distanza incolmabile, e il disagio, quella sorta di frustrazione mista ad inadeguatezza è difficile grattarli via; rimangono incollati addosso, indelebili segni la cui presenza impedisce di assolversi completamente, come se la colpa per tutta quella sofferenza, in fondo in fondo, dovesse toccarci sempre e per sempre, almeno un poco, tutti quanti.