martedì 29 marzo 2011

RIVERBERO

In questi eterni presenti di esistenza che srotola la sua pellicola su fotogrammi uguali a sé stessi la vita la vedo comunque davanti luminosa, rosa, gialla. Nonostante l’aria a volte si faccia rarefatta, soffocante, quasi assente, m’illudo comunque di esserci, e l’illusione sopravvive, resiste nonostante tutto, si accanisce, mi si attacca ai visceri, ai gangli ai nervi al corpo, reclama presenza, invoca coraggio, pietà, supplica le cose che mi circondano per abitudine di farmi compagnia, di tenermi il gioco, sorreggermi.

E trovo così la mia pace, colgo un universo parallelo alla mia vista fatto di niente, fatto di luce gialla tenue e delicata, di luccichii rosa ed arancioni sfumati, disabitato.

E questo mi calma, diffonde un calore speciale, ricopre i miei sensi smarriti, protegge, ovatta la visione d’insieme.

Non voglio pensare, alle cose non c’è soluzione, rimangono sempre a metà, rafforzano la mia idea di irrisolto, sospendono il farsi del tempo, subdole, infingarde, svogliate.

Ma la vita rimane, in questa forma che è fatta di niente, per costruirmi dei soli artificiali, per inventarsi un modo di riscaldarmi, illuminarmi, proteggermi. Rimane a dirmi che intanto lei c’è, a rassicurarmi che ci sarà comunque, qualora un giorno non ne avessi più voglia, ci sarà lei al mio posto per sempre.

Ed io mi affido a questa luce che mi segue, da un senso al niente che sono e al niente che è, mio unico riferimento, in luogo dei punti fermi, che proprio non ho, e forse mai ho avuto.

Mi scaldo così come posso, ma sono comunque contenta, in fondo non mi sono mai persa, persa del tutto completamente.

Sono comunque contenta: non sono mai scivolata, mai perso l’equilibrio dalla cima più alta, mai caduta nel baratro senza fondo e senza speranza, nero come la pece e buio come la morte, impossibile da risalire.

In fondo io vedo la luce, la vedo e non posso ignorarla, mi segue e mi illumina il volto, coi tiepidi raggi mi scalda.

domenica 27 febbraio 2011

SOLO PER VOI

La solitudine è un fatto astratto che quasi mai io faccio derivare da fattori contingenti, ritenendola più che altro una dimensione dello spirito, una sorta di freddo dell’anima che molto spesso prova chi sfortunatamente sa di non essere parte di un unicum, specie di centro collegato da una rete di fili invisibili a molti altri centri, attraverso cui avviene un profondo e reciproco scambio di informazioni, affetto, vita. Chi è solo lo sa e sa di non poter contare su nessun altro, e che questa frustrante solitudine non cesserebbe neanche di fronte ad un’eventuale presenza fisica di qualcuno, o in caso di concrete dimostrazioni di aiuto da parte di chicchessia nell’UniversoMondo, perché quel suo UniversoMondo è desolatamente vuoto, e lui lì dentro non vi si saprebbe figurare anima viva, secco e arido terreno privo di humus, asciutto, ingeneroso.


Mi sono accorta facendo qualche ricerca che il contrario di solitudine non mi aggrada, secondo me neanche esiste. Compagnia? Che vuol dire compagnia, necessariamente non sentirsi più soli? E ancora: forse che non essere soli significa essere appaiati? Magari a volte è sufficiente, fermo restando che se si è un paio si è comunque in due e il duale non prevede al suo interno la pluralità, la molteplicità.

Il fatto è che la solitudine è una condizione dello spirito, ed in quanto tale è probabilmente indefinibile, sfumata, impalpabile. Ho dovuto riflettere molto su questo concetto, perché credo, da che esisto sull’UniversoMondo, di averla provata pochissime volte (e non vorrei con questa affermazione portarmi sfortuna da sola).

Certo, non ne ho affatto un bel ricordo - è una morsa gelida che ti stritola il cuore provocandoti angoscia – e appunto per questo ringrazio tutti i giorni la mia buona stella per avermi permesso di vivere una vita piena di affetti, belle persone, gente davvero meravigliosa che ha riempito – spesso per fortuna in modo ingombrante - la mia esistenza di calore, valore, grazia.

Forse il contrario più degno di essere definito tale della parola solitudine è amicizia. L’amicizia quella vera non è legata alla presenza, perché è eternamente presente; è come se fosse una canzone che tutti insieme ci si mette a intonare; è un film, anzi, milioni di film o di pièces teatrali di cui ognuno conosce perfettamente a memoria la (propria) parte. L’amicizia è un miliardo di fili invisibili, appunto, che io stessa sento partire da me e congiungersi con altri, mi sento sempre “connessa”, come se la comunicazione non smettesse mai di avere luogo, quantomeno a livello di animo, di spirito, a volte addirittura per telepatia.

Il mio cuore è sempre colmo di gioia e di quella gioia altri sono responsabili, altri che sono sempre lì con me, che io associo alle cose che faccio, a ciò che vedo, e che spesso sono causa dei miei modi di essere, di dire, di atteggiarmi. Ho avuto dalla vita la fortuna di essere circondata da persone meravigliosamente eclettiche ed originali, spesso anche strane, ma mai banali, mai scontate, sempre pronte a sorprendermi. Ho avuto la fortuna di crescerci attraverso, di caderci spesso letteralmente dentro, alle loro vite, deliziose sirene che mi hanno richiamata in un particolare momento del viaggio, insidiose ragnatele che mi hanno ricamato una bella tela d’intorno. E io ci sono volentieri caduta dentro.

Grazie a questa meravigliosa gente durante la giornata canto, per tutta la vita ho cantato, a me mi canta dentro, perché non canto da sola, è un coro polifonico il nostro, e quando parte una voce poi come per incanto vi si uniscono tutte le altre, e ci si ritrova puntualmente a mettere in piedi una delirante melodia, tragicomica, forse un po’ stonata, ma assolutamente originale.

La mia vita è un film e a chiudere un poco gli occhi ci vedo riflesse le immagini di bellissimi musi, scomposti, sconvolti a volte, arruffati spesso, ma sempre sorridenti! E quel sorriso è la luce che accende i miei giorni, colora il mio mondo, è il motore che mi muove la vita.

E’ soltanto dopo che arrivo io, che altro non spero se non di meritarmi almeno un poco tutto questo.

DIGITA NOS A MALO


.. ti ringrazio o digitale terrestre, perché offri una gamma ossessivo compulsiva di emittenti assolutamente utili per l’umana specie, perché hai redento canali dei quali giuro con i miei occhi di aver assistito al funerale, morti e sepolti, sebbene uccisi da progenie che tuttavia ahimé sempre dalla stessa matrice derivava… Invece..
Invece mentre facevo un tranquillo zapping casuale per mandare meglio giù la colazione tardo mattutina a momenti ci restavo secca; sono riusciti a riesumare il bisnonno crepato oramai da immemore tempo di una rete televisiva nazional-locale di cui son stata a libro paga per un buon periodo di vita - non come certe squinzie che girano oggi, sia chiaro :-D -, senza prevedere il fatto che il vecchiardo avrebbe parlato il suo antico linguaggio, o forse facendolo riapparire avendo già calcolato il potenziale illimitato della sua natura antica…
Sia come sia, sono davvero contenta di non dover operare mai più montaggi di pubblicità erte a fittizie panacee di tutti i mali, fantasmagorici bruciagrassi somministrati sottoforma di pillole magiche, cyclette che neanche Bartali (già, ma si fa una pre-riflessione su chi ci salirà sopra?), maghi che ti restringono lo stomaco solo per effetto di uno sguardo magnetico. Occhio malocchio prezzemolo e finocchio. Voglio dire. Era molto più credibile Banfi. Contenta, sì. Anche perché a mettere al confronto “il nuovo” di prima con “il vecchio che avanza” di oggi, devo dire mi è andata davvero di culo.. Vabbene tutto, ma il rosario elettronico di Papa Giovanni Paolo Secondo che si attacca con un magnete al cruscotto dell’auto e recita i versetti mosso da pile ricaricabili attraverso l'accendisigari no, quello mi sarei rifiutata proprio. C’è un limite a tutto, in questa nazione senza più pudore, da qualche parte bisogna pur iniziare a rivendicarne un poco, cheddite?

sabato 19 febbraio 2011

EQUILIBRIO


… non voglio centrarmi completamente. Come farò poi a riconoscermi, se guardando i miei confini fisici, per la prima volta più nessuno strascico di pensiero dovessi scorgere, nessun riflesso spettrale della mia mente malata, a dirigere il suo alone nero verso l’esterno, sbilanciando come d’abitudine il peso eccessivo delle mie ossessioni in un indefinito, lacerante punto che forse sono io, ma non sono completamente io, o magari, semplicemente, è il contrario di me stessa, un’altra me stessa là fuori, sul liminare, un altro essere, insofferente, refrattario, dissenziente, avversario, crudele.

giovedì 3 febbraio 2011

RETORICA


Mi guardava con quegli occhi neri e una preghiera tacita nel volto, gridava e imprecava dentro di sé pur non parlando affatto, e d’altro canto le parole non servivano, mi bastava incrociare per un attimo il suo sguardo per accorgermi di quella richiesta che usciva muta dal suo volto disperato e supplicante..
Non potevo aiutarlo. Avrei voluto, ma non mi era possibile farlo. Mentre mi diceva che era venuto apposta e che aveva macinato molti chilometri per arrivare fin lì, sapevo che difficilmente l’avrei potuto aiutare anche se avessi accolto le sue richieste. Continuavo a ripetergli senza guardarlo che non potevo dargli ascolto in quel momento, e che sarebbe dovuto ritornare. Ma intanto provavo una pena infinita, e mi sentivo un’imbrogliona della peggior specie perché sapevo che avrebbe investito una seconda volta i suoi pochi soldi a vuoto.
E mentre sentivo il cuore stringersi forte nel petto, mi chiedevo che cosa potevo fare.. Che cosa più del poco o niente che già facevo?
I suoi occhi neri mi si sono conficcati addosso, li sento ancora adesso pungermi la carne, come grossi spilli appuntiti mi trapassano il cuore. Non sono sicura di conoscere il vero significato della parola giustizia. Ma quando la miseria più nera bussa ripetutamente alla porta, non puoi fare finta di non vederla. E a quel punto il senso di impotenza che si prova crea una distanza infinita tra te e lei, una distanza incolmabile, e il disagio, quella sorta di frustrazione mista ad inadeguatezza è difficile grattarli via; rimangono incollati addosso, indelebili segni la cui presenza impedisce di assolversi completamente, come se la colpa per tutta quella sofferenza, in fondo in fondo, dovesse toccarci sempre e per sempre, almeno un poco, tutti quanti.

domenica 23 gennaio 2011

esercizi di stile


La finestra lasciava passare una luce abbastanza carica, una luce insolita per quella stagione, che l’inverno regalava più che generosamente e che metteva di buon umore.
Era un sabato mattina, tanto luminoso dunque quanto privo totalmente di aspettative, una giornata sgombra da pensieri e forse per questo piena di inedia, magari non di noia ma di calma statica, di quotidiani on line letti premendo lentamente il pulsante del mouse, con le notizie, leggere o pesanti che fossero, che senza rendermene conto commentavo comunque attraverso un’espressione semi-paralizzata e coronata da un sorrisetto idiota che non accennava a lasciarmi la faccia, e che rispecchiava probabilmente quel mio stato d'animo neutrale.
Elencavo mentalmente tutte le singole azioni che mi sarebbero servite per arrivare a sera; non ce n’erano molte ma sarebbero potute bastare, del resto quando ce n’è bisogno ne viene sempre in aiuto qualcuna di ripetibile, come commentare le pagine dei vari social network, riaprendole qualche minuto dopo con la speranza che qualcuno commenti a sua volta. Frammenti di esistenza fatti rimpallare nella rete per sentirsi un poco più vivi.
Mi era appena passata l’influenza di stagione. Tre giorni di convalescenza e di stop forzato dal lavoro erano stati sufficienti per leggere libri, spedire curricula nella vana ricerca di un impiego migliore, e rimanere da sola con me stessa a riflettere. Quel sabato avrei potuto continuare queste attività, ma sentivo di averne abbastanza. Avevo voglia di compagnia, desiderio di vedere gente che uscisse quantomeno dalla cerchia dei miei familiari. Uscire fuori e respirare aria buona.
Ma frequentare i centri commerciali di sabato non è mai una grande idea, e dunque mi pentii subito di quella scelta incauta, prima ancora di metterci dentro un piede, già prima, nel disperato tentativo di trovare parcheggio. Iniziai a maledire nell’ordine: i miei amici tutti impegnati; il mio compagno che aveva dovuto partecipare ad un battesimo in un’altra città, e il virus che colpendomi qualche giorno prima mi aveva permesso di portarmi in pari con tutte le attività extralavorative, tralasciate negli ultimi mesi proprio a causa del lavoro -se è vero come è vero che non ero capace di stare tranquilla neanche da malata - .
Guadagnato a fatica l’ingresso, la solita processione lenta e triste iniziò a sfilarmi di fronte, e dovetti combattere con il desiderio di girare sui tacchi e andarmene seduta stante.
Mi trattennero la noia, le (troppe poche) cose che mi rimanevano da fare entro sera, e una impellente necessità di portare a termine un paio di acquisti.
Diedi una veloce sbirciata alla merce in saldo, comprai quel che dovevo e me ne uscii. Mi accorsi di averci impiegato mica poco tempo. Meglio così, pensai, almeno si è avvicinata l’ora di cena. Guardai pentita il trancio di pizza super lievitato che intravedevo nella sporta, affatto contenta di aver ceduto all’ingordigia. Non era ancora successo niente quel giorno, niente di rilevante che mi venisse in mente, nessun pensiero originale, nessuna idea che potesse salvare il mondo, nessuno slancio verso il futuro, niente che mi tirasse per il bavero trascinandomi avanti. Non volevo tornarmene a casa, ma ero costretta dalle circostanze. Avrei voluto avere una vita completamente autonoma, una vita nella quale non rendere conto a nessuno, in cui non dover dare necessariamente spiegazioni per avere comperato dei biscotti al cioccolato light, come mi stava capitando proprio in quel momento.
Mangiai la pizza dopo averla scaldata al microonde. Una delusione. Era davvero troppo alta e in proporzione non c’era sufficiente mozzarella, sembrava una focaccia secca e insipida. Andava a coronare quella giornata piatta, priva di anima, smorta.
Mi accesi una sigaretta che aspirai con le vie respiratorie ancora infeltrite a causa del virus dei giorni passati, apprestandomi a fare uno zapping distratto; almeno la giornata stava volgendo al termine.
Non avevo risolto granché, né preso (finalmente!) decisioni importanti ad esempio circa il mio futuro; e non avevo ancora capito chi ero.
Non avevo neanche del tutto compreso il significato di una giornata come quella, delle altre che in un certo senso potevano esserle simili: niente di niente, nonostante attraversassi un periodo in cui riuscivo a prendere sufficiente distacco dalle cose, ad allontanare tutto e tutti per poter con calma pensare al da farsi ed infilare un ragionamento di senso compiuto, prima di rimettermi chichessia in mezzo ai piedi.
Eppure niente.
Ormai la sera lasciava il posto alla notte, la giornata l’avevo in qualche modo portata a casa più o meno meritatamente; accesi il computer, ed iniziai a scriverci sopra.
Forse, pensai, forse se me la riscrivo così come mi è venuto da viverla allora in qualche modo ce la faccio, a darle il senso che finora non ha avuto.

sabato 18 dicembre 2010


Ho bisogno della libertà. La libertà di portare in giro con libertà le mie idee, la mia essenza più profonda, l’ideale di vita che ognuno di noi porta con sé e che scorgiamo, costruendolo nella nostra testa, nella vita di tutti i giorni, quando attraversiamo la strada, o in piedi sul tram, mentre cerchiamo un appiglio per non cadere.
Libertà è quando siamo convinti che stiamo facendo la cosa giusta, senza che ci importi davvero se sarà una scelta priva di errori, è quella sorta di mondo interiore che riusciamo a proiettare all’esterno non perché lo vediamo concretamente, sbucato fuori da qualche angolo nascosto del nostro quotidiano, ma perché ci accompagna, come una visione che possiamo cogliere solo noi, una sequenza continua di immagini, persone e cose che ci scorre vicino, ci colora la vita e ci offre l’idea esatta di chi siamo e di cosa vogliamo, di cosa abbiamo bisogno per essere felici. Voglio questo per me, voglio sapere che non seguirò il destino di chi mi ha indicato pedagogicamente, pedissequamente ripetto ai dettami cattomoralisti di paese la via, ma ciò che ritengo più giusto, al limite delle mie capacità, al limite delle possibilità esterne, con rispetto e fiducia, e tutta la responsabilità che mi è data per rispondere sempre, nel bene e nel male, delle mie personali azioni.